Ritorno a Peyton place.

Non accusatemi di essere troppo banale, ma oggi devo tirare fuori dal cappello questa arguta considerazione: come passa il tempo! Ieri sera, dopo quasi cinquanta anni ho posato il piede su un luogo della mia adolescenza. Il fatto che fosse cambiato poco o nulla da allora, mi ha provocato un tuffo al cuore. Qualche macchina in più parcheggiata sulla piazza, ma lo stesso portone sbrecciato, il vialetto dove avvertire lo scricchiolio della ghiaia sotto i miei piedi che conduce al calcolato ed emozionante squallore della SOMS di Valle San Bartolomeo. Al di là della recinzione di plastica malandata, a neanche cinquanta metri, la casa dove trascorrevo le mie estati bambine, al di qua, il luogo di croce e delizie dei miei giovani anni. Nell'immutata saletta del bar è scomparso il biliardino, ma non c'è stato neanche l'aggiornamento con le i videopoker mangiasoldi. La tettoia si è soltanto un poco allargata per ospitare i danzatori invernali e le cene sociali, allora non c'erano ed una mano di bianco ha pietosamente ricoperto il tragico affresco michelangiolesco che sulla parete di fondo raffigurava una ninfa e un satiro con improbabili arpa e flauto a descrizione puntuale del luogo dedicato alle attività danzanti. 

Al centro del cortile, eccola là, immutata, la rotonda pista da ballo, mancante soltanto di un basso zoccoletto in cemento che separava inesorabilmente i danzatori da quelli che avevano preso il casü, (il mestolo in dialetto locale, un po' come il rugbistico cucchiaio di legno), il tragico rifiuto a ballare. Ma procediamo con ordine. Le serate danzanti durante l'estate non erano molte, l'ingresso era fissato a 500 lire, che purtroppo rappresentavano un grosso problema (il cono gelato gigante costava 50 lire), ma con artifizi indignitosi, a volte si riusciva ad entrare a sbafo. Il culmine erano le tre serate della festa del paese, alla fine di agosto. Durante tutto il mese precedente era un continuo affannarsi, dei responsabili del circolo, in riunioni nella saletta di fianco al biliardino per decidere la scelta dei famigerati complessi che avrebbero allietato le serate (si diceva proprio allietare). Eh già allora nessuno aveva ancora ipotizzato la discoteca, c'era al massimo il jukebox, 3 canzoni cento lire, cifra palesemente spropositata, ma la gente ballava solo con suonatori veri, ma quella che si denominava orchestra, anche se erano solo in 4 o 5, cominciava a chiamarsi complesso a cui si abbinava il cantante.

 Parliamo dei primi anni sessanta, data spartiacque per la musica e le discussioni fervevano tra i sostenitori delle sonorità  vecchio stile e quelli che volevano seguire le tendenze moderne con le prime chitarre elettriche. Poi arrivava uno con una delle prime musicassette, che era stato mandato in avanscoperta da qualche impresario di spettacolo di provincia e buttava là: "senti un po' questi: I Quattro Assi, sembra Arturo Testa sputato" e la decisione era presa irrevocabilmente, dando il via alle locandine. A quel punto si aprivano le prenotazioni e le mamme delle ragazze andavano a prenotare un tavolino, preferibilmente in prima fila di fronte all'orchestra, dove, occhiute, avrebbero accompagnato le fanciulline, esercitando con discrezione il loro ruolo di chaperon. La serata, sempre che fossi riuscito ad entrare, era tuttavia tragica. Io ero uno dei più piccoli della compagnia, come tale affatto considerato dai membri del sesso nemico, che ambivano a ben altri virgulti dalle capacità tersicoree spropositate. Lauro era uno di questi. Tra i primi aveva capito la potenza magnetica di questa abilità e aveva messo a punto una buona tecnica nel rock'nd roll, ispirandosi alle movenze del primo Celentano. 

Con i capelli appiattiti nella cosiddetta ciabatta, una variante locale della banana di Elvis, gli bastava, alle prime note di Rock around the clock, lanciare un'occhiata o alzare leggermente il dito verso l'alto e bramose fanciulle si alzavano di scatto per lanciarsi nella mischia. Che invidia terribile per chi come me si aggirava con l'occhio basso dietro le sedie senza riuscire a decidersi e che sofferenza inaudita prima di trovare il coraggio di avvicinarsi ai tavolini sotto gli occhi indagatori delle madri a chiedere con un soffio preagonico:"balli?" speranzoso in un successivo gradito lento, rimanendo così per un attimo appeso sul baratro, prima di precipitarvi al suono del terrificante rifiuto. Che umiliazione spaventosa e di conseguenza, quanto rimuginare prima di effettuare il pavido tentativo proprio per questo destinato inevitabilmente all'insuccesso. E ieri la pista di piastrelle, testimone di quelle sere era ancora lì, ancora muta e uguale, i tavolini impilati agli angoli, impossibile che fossero ancora gli stessi, la conchiglia del palco vuota e senza suono, solo lo struggente dipanarsi delle emozioni da annegare nelle cucchiaiate di insalata russa e dei ravioli alle noci. Come passa il tempo!